Sai, Matteo, mi permetto di chiamarti per nome perché in fondo il tuo pensiero è quello di tanti nomi di cui non abbiamo visto foto in giro oggi. Sai, dicevo, che quello a Bruxelles è stato il nostro primo vero viaggio di famiglia. Noi e i nostri piccoli, il loro primo aereo, la prima volta in metro, il primo camminare in una città del mondo che non fosse il loro mondo.
Pochissimi giorni dopo, quando a seguito degli attentati di Parigi la capitale belga era sotto assedio, vedevo il deserto nella Grand Place dove i miei figli avevano acconsentito a una foto di gruppo nonostante i morsi della fame ormai in agguato, e per la prima volta mi chiedevo: come si vive nella paura?
C’è un libro, Matteo, che amo immensamente. È un albo illustrato di un grandissimo autore (e non solo), Leo Lionni. Si intitola Guizzino ed è la storia di un pesciolino nero come una cozza e velocissimo che si trova tutto solo nel mare dopo che il suo branco di pesci rossi è stato divorato da un tonno. Dopo tanto vagare incontra nuovi amici, terrorizzati all’idea di nuotare lontano, di viaggiare, per il rischio di quel che potrebbe capitare. “Ma non si può vivere così, nella paura” risponde Guizzino, “bisogna pur inventarsi qualcosa”.
Ma certo, Matteo, non si può vivere schiacciati dalla paura, non si può smettere di viaggiare, di credere, di vivere. Però oggi vedevo il tuo cartello, guardavo le tue foto dinanzi a transenne ed esercito, leggevo i tuoi post e pensavo: davvero? Io ho paura, eccome. Tanto per cominciare non apprezzo mai quando qualcuno dice cosa fare o non fare con i sentimenti: non puoi guardare una persona negli occhi e dire Non amarmi. Lo farà comunque. Non essere triste, sarà solo più frustrato dal non avere comprensione. Non devi avere paura. Non devo, davvero? La paura è una domanda, ho pensato una volta.
E in effetti credo che, se a questa domanda possiamo non rispondere quando si tratta di noi, di certo la domanda è forte e insistente quando si tratta della paura per i nostri figli. Che spesso sono la risposta a tutte le domande più importanti. Davvero non devo avere paura al pensiero di mandare i miei figli a scuola dove al cancello non si fermeranno per parlare coi compagni ma per farsi perquisire gli zaini? O dove l’insegnante spiegherà cosa fare in caso di esplosione? A volte la storia non si studia, se ne fa parte.
Davvero non dovrei avere paura al pensiero di restare bloccata in un ufficio per ore e ore, mentre attorno a me tutto è devastazione, e non poter tornare a casa dai miei figli per stringerli in un abbraccio che in certi casi è l’unica cosa da fare e pensare: siamo vivi? Non dovrei, davvero, al pensiero di trovarmi sola in una piazza, con mia figlia tra le braccia, dinanzi a un esercito che con furia improvvisa cerca bombe inesplose nei cassonetti? Non dovrei mentre, in un angolo, stringo quella vita tra le mie mani sapendo che in realtà non è solo nelle mie? Ecco, le mani, Matteo, le tue, le mie, le mani di tutti sono responsabili.
Come si vive nella paura, me lo chiedo oggi ancora di più. La paura è una domanda legittima. E io non voglio averne paura. La risposta è personale quanto il suo interrogativo. Ma sai, Matteo, cosa propone Guizzino, dopo averci pensato un po’? I pesciolini rossi si mettono tutti vicini, disposti in modo da formare un enorme pesce, per nulla inferiore ai grandi tonni, e lui che è l’unico nero, esclama: “Io sono l’occhio”. L’occhio, Matteo, non una pinna per muoversi, non la coda per voltarsi, non la bocca per mangiare. Ma l’occhio, l’occhio per vedere.
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