Guardo i video e leggo le notizie su Marco Vannini e una domanda mi trapana la mente: Quante volte si può essere uccisi? Pensiamo alla morte con paura, come a qualcosa di definitivo, che ci toglie alla vita e invece, nulla di definitivo per questo ragazzo, 20 anni, ucciso. E non una volta.
Perché non solo Marco sarebbe vivo se nessuno gli avesse sparato mentre era nella vasca da bagno della sua fidanzata, Martina, a Ladispoli. In casa con la famiglia di lei: madre, padre e fratello con la sua fidanzata. Non possiamo certo dire che Marco sia stato ucciso da un colpo di pistola sparato dal padre di Martina. Dopo quel colpo, Marco era vivo. Evidentemente si può essere uccisi più volte.
Da un colpo di pistola come da un mancato soccorso. Marco sarebbe vivo se la sua fidanzata, il padre, la madre, il fratello (quante possibilità) avessero chiamato immediatamente i soccorsi. E invece, aspettarono.
Fu ucciso anche da una menzogna, con la chiamata tardiva al 118. “C’è un ragazzo che è diventato troppo bianco, probabilmente uno scherzo, si è spaventato tantissimo“. E fu ucciso ancora quando, incalzati dall’operatore confuso e incredulo al telefono, misero giù. Con un colpo di telefono, ecco, lo uccisero ancora.
Marco sarebbe vivo se, richiamando l’ambulanza, non avessero continuato a mentire. Questa volta lo uccisero con un pettine, di quelli a coda, con la punta. Marco si era bucato con quello, dissero. Mentirono. Uccisero. Quante volte si può essere uccisi? Marco fu ucciso quando nessuno rispose al suo grido che implora nelle registrazioni del 118: “Basta ti prego“. Tanto era il panico, “il panico è questo“. Quando nessuno, non la fidanzata, non la madre, non il padre, non il fratello, decisero di chiamare i suoi genitori. Potevano abbandonarlo Marco, ma almeno lasciare a una madre e un padre il diritto di salvare il proprio figlio.
E invece Marco fu ucciso ancora quando arrivarono i soccorsi, con codice verde, in tranquillità visto che si trattava di soccorrere un ragazzo con il “panico” e “un buchino” da pettine. Fu ucciso quando decisero di tacere ancora. Non si potevano rischiare guai con la pistola di ordinanza, meglio tacere. Meglio uccidere col silenzio.
Così Marco morì. E ancora nulla fu definitivo. Perché incredibilmente fu ucciso ancora. Quando nessuno, non la fidanzata, non il padre, non la madre, non il fratello, confessarono. Loro, dissero, non sapevano nulla dello sparo, di quello era colpevole solo il padre di Martina. Eppure parlarono le intercettazioni in caserma, quelle in cui Martina, senza sapere di essere vista e sentita, racconta al fratello e alla sua fidanzata di aver visto il padre puntare la pistola, di aver visto l’ogiva. Non un buchino da pettine, un’ogiva nella carne di Marco. Fu ucciso dalla complicità omicida di una famiglia intera. Si sente in caserma, si vede dai loro abbracci. La complicità che un ragazzo di venti anni avrebbe meritato dalla sua amata, quell’amata la ripone in suo padre, nell’uomo che l’aveva ucciso. E così fu ucciso da una sentenza di primo grado che parla di omicidio volontario solo per l’uomo che aveva sparato. Non per tutti gli altri che a quel grido di Marco non avevano risposto.
Pochi giorni fa, Marco Vannini è stato ucciso da una sentenza di appello: cinque anni al suo assassino. Cinque. Per omicidio colposo. Come se non ci fosse intenzione nel mentire, nel tacere, nel mentire ancora. Nel non salvare. Quante volte si può essere uccisi? Marco è stato ucciso, incredibilmente, anche dopo. Da un giudice sprezzante che intima il silenzio a una madre straziata e legittimamente offesa da quella sentenza. Ucciso dal suo urlo, dal suo battere il pugno, dalla sua minaccia: “Se volete farvi un giro a Perugia…”.
Nulla potrà ridare Marco alla vita e la sua famiglia sarà ferita dalla sua assenza giorno dopo giorno, dopo giorno, dopo giorno. Basta ti prego, mi sembra di sentirlo implorare ancora. Io lo sento quel grido. Basta, vi prego, smettete di ucciderlo.
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