Ogni mattina riempio d’acqua le borracce e le metto di lato alle sacche. Preparo la merenda, a ciascuno il suo contenitore dei Minions con un bigliettino quasi cancellato ormai. Pulisco gli occhiali con lo spray anti-appannamento, preparo le mascherine. Faccio indossare i grembiuli, tranne il giorno in cui hanno ginnastica. Prendo le scarpe e le libero dai lacci perché il giorno prima nella foga del rientro le tolgono sempre senza slacciarle.
E l’unica cosa che gli stampo addosso è un bacio con l’augurio di una buona giornata.
Non lo so cosa si provi a stampare adesivi con il gruppo sanguigno del proprio figlio per la paura che un bombardamento lo colpisca mentre è a scuola. So cosa si prova quando si tenta, con delicatezza e quel minimo di conoscenza che si sfiora, a raccontargli ciò che sta accadendo.
Capita di vederne uno col volto tra l’impaurito e l’imbarazzato e l’altro che prende appunti. Un approccio sacrosanto dinanzi ai fatti di guerra: la paura, l’imbarazzo, il bisogno di imparare e tenerne traccia. Capita di parlare di cosa accade quando il potere è nelle mani sbagliate, di parlare di organizzazioni internazionali, diritti umanitari, di mondi connessi, di sanzioni, di paura, di fughe, di accoglienza. Allora capita anche che elaborino a loro modo, con il disegno. Uno ritrae Putin in arresto e dietro le sbarre, e accanto, “Ucraini (e non solo) che fanno festa”. L’altro disegna una tomba “RIP quel tremendo coso che voleva conquistare l’Ucraina”. E poi un enigma con il codice crittografato per scoprire “Abbasso Putin”.
E soprattutto, sopra tutto, ti portano una bustina: “I soldini per le persone ucraine in difficoltà”, con i loro risparmi. So cosa si prova, con quel misto di emozioni. La paura per aver affidato loro un altro pensiero enorme dopo due anni di pandemia, senza sapere anche stavolta quali conseguenze avrà. L’imbarazzo di dover parlare di guerra, dopo averli appena abbracciati per le lacrime alle riflessioni sull’Olocausto. La voglia di tenere traccia di quello che sono, che fanno. Una speranza, si direbbe. Sento molto spesso dire che i nostri figli sono la nostra speranza nel futuro. Io credo che sia un modo subdolo per dare loro responsabilità che non vogliamo assumerci. Questo è il presente. Con le sue sfide. E la speranza non è cosa da lasciare al fato, a ciò che sarà. È spinta, è movimento, verso l’altro, verso noi. È molto più del “non stare a guardare”. Anzi, è guardare proprio, guardare con coraggio e con l’augurio di una buona giornata.
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