Raccontava mia madre che, quando nacqui io, mio padre scimunì completamente. Di certo mio fratello e io siamo nati in contesti e in età molto diverse ma, a parte questo, il dato rilevante era che mio padre era diverso. Tenero. Io ricordo quando mi faceva ballare sui suoi piedi enormi. E non è che li ricordi enormi rispetto ai miei piedi di bambina, mio padre aveva una malformazione alle dita di mani e piedi. Erano letteralmente enormi. Per molti anni, poi, non ho visto più quella tenerezza.
Mentre io crescevo, mio padre lavorava. Rintanato nel suo studio, al piano inferiore delle ville dove abitavamo. Noi vivevamo e lui lavorava, un piano sotto. Quando un padre muore e una figlia ne parla bene si dice spesso: Ecco, lo sta mettendo su un piedistallo. Io se proprio devo posizionarlo non lo metto su un piedistallo, lo metto giù, nel suo studio. Da figlia mi spiace non averlo avuto sullo stesso piano per molto tempo e oggi che sono madre dico, mi spiace per lui che si sia perso tanto di noi. Io li ho visti i suoi errori, una volta ne ho avuto anche paura. E no, non è bello avere paura di un padre. C’era però un momento in cui lui saliva.
Questa è una cosa che ho imparato molto bene da lui. Ognuno ama a suo modo, lui ci amava nelle foto. C’erano giorni, domeniche più che altro, in cui prendeva la macchina fotografica e ci portava fuori. Si guardava intorno e ci diceva: Ecco, qui. Sceglieva la luce per noi. E sotto quella luce, ci guardava. Un giorno trovai persino una foto di mia madre scattata da lui. Aveva vent’anni ed era bellissima. E mi somigliava. E in quella foto vidi, l’aveva amata. Aveva amato persino mia madre. Ora così distanti, in quella foto così vicini. Ho tanto capito che il suo amare aveva bisogno di un obiettivo che quando decisi, sì proprio razionalmente, decisi che dovevo avere un rapporto con mio padre allo stesso piano, scesi da lui. Nel suo studio. E gli chiesi un regalo per i miei 21 anni. Gli chiesi di farmi una foto. Ne scattò molte, era difficile per me essere al centro, sotto tanta luce. Finché lui si girò a cercare qualcosa e io mi misi coi gomiti sullo schienale della sedia, viso tra le mani. Ero io, e lui si rigirò, mi vide. E scattò. Mi mise una dedica su quella foto. Con amore, papà. E lo so che sembra banale ma era la prima volta che glielo vedevo fare. È la foto che porto in ogni casa che abito.
Poi ho continuato a cercarlo. E l’ho trovato nel suo lavoro anzitutto, nella fotografia, dalla sua stessa parte, e nei pranzi fuori quando non c’erano filtri e toccava parlare. A viso aperto. Cavolo, se era difficile. Ma quando si ammalò pensai che tanta fatica era stata per una valida ragione. Non me lo sarei mai perdonato se non l’avessi trovato prima. Mentre un cancro lo divorava dentro, iniziando dal fegato, lui si spogliava fuori. La malattia fa questo di terribile e meraviglioso. Ti denuda. E mio padre, nudo, era forte, combattivo, ed era fragile. Ritrovai la tenerezza di quei piedi enormi. Stavolta non aveva un obiettivo eppure mi guardava, con la luce dei suoi occhi. E io lo guardavo, e lo abbracciavo. E non posso giurarlo perché eravamo distanti ma credo lo stesso accadde con mio fratello. Che pure l’aveva trovato parlando di lavoro e poi lì lo guardò, facendogli la barba in ospedale.
Non c’è bisogno di piedistallo, anzi. Per amare bisogna solo vedere. E io l’ho visto mio padre. L’ho visto sbagliare e l’ho visto imparare. E ho imparato soprattutto che finché c’è tempo è possibile cambiare. Si deve cambiare. Che non nasciamo madri e padri ma impariamo a esserlo giorno dopo giorno, dopo giorno. Dopo anni, a volte.
Mi addolora non avere foto dei miei figli scattate da lui, sarebbero state bellissime. Come quelle che fece quando nacque mia nipote. Non una parola sul suo essere nonno, non una parola su suo figlio che era diventato padre. Arrivò in ospedale con due luci da studio altissime. E lui amò così Ilaria, a suo modo, in quelle foto. I miei bambini non ne hanno ma io non smetto di fotografarli come lui mi ha insegnato. Lo faccio con un grande uomo al mio fianco. Un grande padre. Che guarda senza obiettivi. Che dona il suo tempo e cresce con loro. Perché c’è tempo per crescere.
In casa la creativa sono io, quella che li fa pasticciare e poi lava tutto perché vederli sporchi di vita è una delle immagini più belle che possiamo avere di loro. Ma ieri è stato lui che ha preso un grande cartone e una grande idea. Abbiamo fatto stendere i bambini e tracciato le loro sagome. Poi, abbiamo lasciato che si colorassero.
Ci sono padri che scelgono la luce per te. Ci sono padri che ti danno in mano i colori e lasciano che tu ti disegni. Il momento in cui più ti amano è sempre quello in cui ti guardano.
No Comments