Era un pomeriggio come un altro quando la notizia è apparsa sulla mia bacheca Facebook. Io non conoscevo questo ragazzo ma molti miei amici sì. Così ho vissuto in diretta la loro agitazione. È morto? Che cazzo dici? Ditemi che non è vero. Era chiaro quanto fosse vero, nessuno si sognerebbe di scherzare su un amico di 33 anni che muore. Io non lo conoscevo eppure ho vissuto un pezzetto di quell’angoscia incredula. Passata l’incredulità, l’angoscia è rimasta. Era di Bari come me, giovane più di me, genitore da poco, come me. Per via di quegli amici in comune avevo incrociato molte volte il suo nome, i suoi occhi profondi, il sorriso vitale. Era un ragazzo di successo, per davvero. Di quelli che li guardi e pensi: Ma dai, un bel lavoro, voce di punta di una radio nazionale, amici, una di quelle vite che da fuori appaiono belle. Da fuori. Appaiono. Non è possibile che ciò che sembrava non era, ha commentato un mio amico. Sono certa che qualcuno avesse accesso a quel dolore. Pochi. Intimi, di dentro appunto.
Però.
Però mi sconvolge da coetanea, da moglie, da madre soprattutto, che un ragazzo possa provare un dolore così insormontabile da essere più grande della vita, che devi togliertela per tua mano la vita perché è troppo. Troppo. Persino più dell’amore per un figlio che so bene essere infinito. Ecco, c’è qualcosa che va oltre l’infinito.
Paradossalmente, il nostro finito. La nostra fatica, grave, pesante, di accogliere le nostre fragilità. Di accogliere, intendo, al punto di mostrarle. Perché forse, dico forse, ci potremmo salvare se ammettessimo le nostre fragilità uno di fronte all’altro. Non solo le mie o solo le tue, o solo per un momento. Se fossero quelle il nostro luogo d’incontro. Allora oggi ci incontriamo qui. Comincio io. Ora.
Mio marito e io siamo senza lavoro. Questa cosa mi fa paura. Mi toglie il sonno. Il sorriso non ancora. Ma solo perché sono fortunata. Posso condividere quotidianamente ogni emozione con chi amo, che sia consapevole come mio marito o che non lo sia come l’abbraccio dei miei figli. Poco importa. Posso farlo. E così sorridere, anche con gli occhi. Quegli occhi profondi sono chiusi ora, non me ne capacito. Non condivido chi condanna il suicidio, non è vigliaccheria, non è solitudine. È che l’amore non basta. L’ho visto troppe volte. Guardo i miei figli giocare e penso che nessuno si negherebbe questo privilegio, se l’amore bastasse. Penso a questo bambino che crescerà nel ricordo di una voce bellissima e bellissimi occhi e credo, credo perché lo so, che un giorno potrebbe chiedersi perché. Perché lui non è stato abbastanza. Vorrei dirgli che lo è. Sono certa. È molto, molto più di abbastanza. È che il lavoro, il successo persino, non conta. Non conta un cazzo. E che l’amore non conta. Perché non sa contare. È per questo che diamo i numeri a volte. L’amore non basta. Porca miseria, mi danno per questo ma l’amore non basta. Forse ci vorrebbe l’amore per le nostre fragilità. È che quelle sono così difficili da amare.
Ho comprato un albo illustrato, con la scusa dei miei figli mi sono fatta un regalo. Il buco di Anna llenas. Chi vuol fare un regalo al suo personale buco lo compri, piangerà e poi scoprirà meraviglie. Quelle più intime. La pagina che prediligo è un girotondo di bimbi con una corda che passa per ogni singolo buco. Se amassimo le nostre fragilità al punto da metterle in mostra, da farvi passare un filo per tutti, da farvi un girotondo, nessuno ci sfuggirebbe. L’amore non basta. Non sazia. Non conta. Ma a parole è insuperabile. Forse potremmo imparare questo dall’amore. Ad avere parole, anche per i nostri dolori. Sbattiamoceli in faccia i nostri dolori, perché l’amore non basta ma il dolore sì. Ce n’è per tutti.
Chiedo scusa se ho osato entrare nel dolore di una famiglia che non è la mia. È solo che ci ho trovato pezzi del mio dolore. È proprio questo il punto. Il dolore può ritrovarci uniti più dell’amore. Incredibile quanto ciò che ci rende fragili sia invece potente. La potenza è in quel filo che passa per ogni singolo buco. In quella corda ci sono, voglio esserci anch’io.
L’immagine è tratta dal libro “Il buco” di Anna Llenas (Gribaudo)
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