Questa è la casa di cui sapevo solo l’esistenza. Mio padre l’aveva acquistata per fare un investimento e ogni tanto giocava a farne progetti per cambiarla. Per me. Questa è la casa che lui non ha mai visto. Io l’ho vista, eccome. Ma lui non c’era più.
Questa è la casa che ho visto da sola. Un’anziana signora mi parlava di mio padre, suo figlio provava a convincermi a non venirci mai a vivere: “Di fronte c’è una casa di pazzi”. Non sapeva che io queste cose non le posso sentire. Non lo sapeva, povero ignaro, che la pazza ero io. Un lungo corridoio, con stanze una dopo l’altra. Un pavimento antico, un vano cieco, un balcone per cucina e muri. Muri dappertutto. Questa è la casa che ho visto. Ho visto la luce e tanto mi è bastato. Per immaginarla tutta, quella che sarebbe stata.
Questa è la casa che abbiamo raso al suolo e ricostruito. Senza neanche un muro, eccetto quello portante. Tutto aperto, tutta luce. Tanta luce. Questa è la casa che abbiamo inaugurato con tanti amici e uno a sorpresa, con cene e feste, con una targa fatta a mano dietro la porta: “Ala, Marco e la follia”. Questa è la casa che ha visto pure il buio, l’assenza. La mia più grande assenza. Quel bambino mai nato, eppure amatissimo. In questa casa l’abbiamo accolto, e in questa casa l’ho coccolato giorno dopo giorno quando sapevo che la sua vita era appesa a un filo. E anche la mia. Abbiamo cantato io e lui, Gianna Nannini, per ore. Finché non ha avuto più il coraggio di vivere. E io nemmeno.
Questa è la casa dove mio suocero mi portò i confetti Mucci e provava a tirarmi su il morale, è la casa dove anche lui non ci ha più visti felici. Questa è la casa del letto di spine che io lasciavo mentre lui lasciava noi.
Questa è la casa dove pochi giorni dopo scoprivamo che la vita sa essere più forte della morte. Dove la luce è così tanta che è nato Davide a illuminarci tutti. Me lo ricordo bene quel fascio di luce sul suo volto neonato. Caldo, generativo. Così tanto che dopo soli nove mesi ha generato Claudio. Questa è la casa che li ha visti abbracciarsi, mordersi, rincorrersi, picchiarsi, baciarsi. Un milione di volte al giorno. Che li ha visti parlare e dirsi: Ti amo, fratellino. Mentre loro crescevano, questa casa restava sempre la stessa. Luminosa. Un po’ stretta, a volte. Bella scusa per stringerci di più.
Questa è la casa dove è nato “L’amore è a doppio senso”, dove ho perso il lavoro e poi l’ha perso Marco. La casa che ci ha visti preoccupati, stanchi. Infinitamente stanchi. La casa dove abbiamo dormito pochissimo e sognato moltissimo. La casa di Federico, dei due mostri, di tanti versi su poche pareti. La casa del lungo open space per fare avanti e indietro coi piccoli in braccio, per fare la corsa dei cavalli, per ballare il pomeriggio, per nasconderci, per trovarci.
Questa è la casa dove abbiamo inaugurato “la Vigilia da noi” e il Capodanno anche. A volte con amici che non lo erano, amici davvero. Ma poco importa. Eravamo a casa, cioè eravamo noi. E non rimpiangiamo neanche un secondo di ciò che abbiamo scelto di vivere né come. L’abbiamo vissuto e tanto basta. Questa è la casa degli amici di sempre, che stare insieme è stare in famiglia. La casa della zia zitella, degli amici ospitati in cameretta e poi degli amici sul divano. La casa che appena entri c’è l’amaca del Messico e quella che appena entri c’è un oceano di giochi.
Questa è la casa che ieri abbiamo salutato. Con un ballo, un abbraccio e un inchino. Mi piace pensare che questa è la casa che per sette anni ha fatto parte della nostra vita, ma per sette anni noi abbiamo fatto parte della sua. E ieri, mentre ci allontanavamo, mi è sembrato di sentirli, quelli sul balcone: “Di fronte c’è una casa di pazzi”. Questa è la casa che ho visto. La nostra casa piena di luce. Ora si chiude il sipario e si aprirà il 2018 su un’altra scena.
“Un ultimo sguardo commosso all’arredamento”.
L’ultimo verso è tratto dalla canzone “Altrove” (Morgan), colonna sonora di tanto luminoso amore
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