“Aveva sopportato tanto, troppo, per tenere unita la famiglia, Antonietta. I suoi sforzi hanno però alimentato l’odio di un uomo pericoloso, quel carabiniere Capasso al quale neanche i funerali pubblici sono stati accordati per motivi di sicurezza” (NapoliToday). “All’origine del folle gesto la separazione in corso dalla donna che il carabiniere non ha mai voluto accettare” (Il giornale) “Una tragedia nata, secondo le prime ricostruzioni, dalla causa di separazione in corso della coppia” (Il Sussidiario). Chiedo scusa se inizio un post con parole non mie. E non nel senso che non le ho scritte io, ma perché non le scriverei mai. Nel giorno delle donne, vorrei parlare di violenza. Non quella commessa da un carabiniere sulle figlie e la moglie. Non solo, almeno. Violenza, per me, sono queste parole.
La strage di Latina ci consegna più riflessioni. Prima fra tutte, che più violenta di una violenza è la sua cattiva narrazione. Antonietta non è stata sparata perché si stava separando. Le sue figlie non sono morte perché il papà non accettava questa separazione. Gli sforzi di Antonietta non hanno alimentato l’odio di un uomo pericoloso. Questa tragedia non nasce qui. Non nasce dalla separazione, non nasce dai suoi sforzi, non nasce da lei. È la solita storia che davanti alla “violenza sulle donne” dimentichiamo l’autore. È la donna che fa qualcosa, che si veste in un certo modo, che fa scattare l’odio con una reazione, una richiesta di separazione, un allontanamento, un esposto. È la donna che deve imparare a proteggersi, che deve avere il coraggio di denunciare. Che deve sapere a chi rivolgersi.
Mi chiedo sempre quando inizieremo a parlare di “violenza degli uomini“, di responsabilità. Di cause vere. Quando inizieremo a dire che la strage di Latina è stata compiuta su Antonietta perché moglie, e le sue bambine figlie, di un uomo violento. Che i suoi sforzi non hanno alimentato l’odio. Semplicemente, drammaticamente, sono stati vani. Perché così è, a volte, dinanzi alla violenza. Quando inizieremo a rinunciare alle parole eclatanti dei familiari: “Non era cattivo, era un bravissima persona”. Questa non di meno è violenza. Una bravissima persona non spara alla moglie. Non uccide le sue figlie. Non uccide. Le sue figlie.
Quello che è stato descritto come “un padre amorevole” era in verità un padre di cui le figlie avevano paura. Una trasmissione che non citerò mai ha diffuso, con violenza, una telefonata privata tra l’assassino (diamo a ogni cosa il giusto nome), sua moglie e la figlia maggiore. Un’adolescente impaurita e imbarazzata della sua paura a cui l’uomo sente di rispondere “Non ti preoccupare di papà, non ti faccio niente”. Un padre che deve dire a sua figlia che non le farebbe mai del male è un padre che sì, lo farebbe. O non ci sarebbe motivo di dirlo. Antonietta gli replica i sedici anni in cui è stata da lui “maltrattata, umiliata, tradita, picchiata”. All’origine del folle gesto, eccoli. Sedici anni se-di-ci di maltrattamenti, umiliazioni, tradimenti, botte. Botte davanti ai colleghi, persino. Botte, presumo, davanti alle figlie. “Ho dato la vita per te” dice lei. E ora mi viene da piangere a pensare che lei sia l’unica rimasta in vita. Almeno il suo corpo. Sul resto di lei, non ci giurerei.
Che beffa. Perde una madre che si ribella e perde una madre che sta zitta. Giudicate colpevoli le prime, deboli le altre. Colpevoli sempre, in via definitiva.
Ma cosa possiamo noi madri, allora, di fronte alla violenza di certi uomini, e di certe narrazioni. La mia risposta è sempre una, con voce sottile rispetto alle urla della ferocia, con voce forte rispetto alle insinuazioni di certi racconti. È una, e una sola. Educare figli maschi.
L’immagine è tratta dall’albo illustrato “Un piccolo Cappuccetto rosso” di Marjolaine Leray (Logos)
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